Un racconto di Vita, di Morte e di Amore.
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Doroty si risvegliò lentamente e capì subito che qualcosa non andava, quando si accorse di non essere nel suo letto. Se non fosse stato per quel raggio di sole sul viso, probabilmente, avrebbe continuato a dormire per ore.
Cosa cazzo era successo? Quanto cazzo aveva bevuto la sera prima e soprattutto dove, con chi? «Cazzo! Cazzo! Cazzo!», non riusciva a imprecare altro.
Non era la prima volta che perdeva parti di memoria per una sbornia, ma non le era mai capitato di dimenticare davvero tutto. Il suo ultimo ricordo era di aver telefonato ad Anna, l’amica di sempre, per un aperitivo, ma non aveva memoria di altro: non ricordava cosa si fossero dette, né se l’amica avesse risposto.
Era passato molto tempo dall’ultima volta in cui si era ridotta in simili condizioni, ma non abbastanza da stupirsene. Stavolta, tuttavia, aveva sensazioni diverse: la testa non era pesante e non le faceva male, non aveva nausea, né il respiro pesante. Deglutì un paio di volte, per testare ancora se avesse vomitato o meno, ma per fortuna non sentì il classico sapore del rigurgito della sera prima.
Tutto quello che avvertiva era un latente stordimento, molto simile all’iperventilazione, ma più intenso e persistente.
Non le dava fastidio la luce, come di solito accadeva appena sveglia. I suoni, invece, erano più insopportabili di ogni altro giorno. Ogni rumore sembrava più forte del normale, riusciva a sentire distintamente perfino il fruscio delle foglie degli alberi, il ronzio degli insetti e lo sgocciolare di una fontana, da qualche parte.
Acqua! Ecco cosa ci voleva! Una bella sciacquata al volto ed avrebbe ripreso subito lucidità, non prima, però, di aver soddisfatto il bisogno primario di fumare.
Si tirò su dalla panchina sulla quale si era spenta e riconobbe la piazzetta vicino casa.
Rimase qualche minuto seduta sulla nuda pietra, con le gambe incrociate e lo sguardo puntato su qualche punto tra il suo naso e l’infinito, pensando al suo letto, alla moka e alla preoccupazione di suo padre, per la quale provò quella profonda e ormai familiare vergogna, che però non avrebbe mai confessato.
Tirò fuori il pacchetto di tabacco dalla borsetta e rollò una sigaretta sbilenca, nonostante tutte le difficoltà dovute ai riflessi ancora mezzi addormentati, ma non trovò l’accendino.
Le fregavano sempre l’accendino, «porca puttana!»
Mentre recuperava un’improbabile imitazione di equilibrio, penso che c’erano due cose che perdeva sempre: l’accendino e la dignità.
Per fortuna, a pochi metri dalla piazzetta c’era il bar del paese, già aperto e vitale, dove avrebbe potuto trovare almeno fuoco e caffè. La dignità, purtroppo, non la vendono al bancone.
Arrivò, barcollando, alla fontana, che effettivamente gocciolava, come sempre e come aveva sentito. Ripose gli occhiali e la sigaretta sul muretto, facendo attenzione a lasciare il filtro fuori dal bordo. Aveva la fissa dell’igiene, ma era perfettamente consapevole della contraddizione che rappresentava: preoccuparsi dei microbi sul filtro, quando ci si era appena svegliati su una panchina, aveva almeno del ridicolo!
Tirò su le maniche e raccolse i lunghi capelli neri nella maglia, per evitare di farli bagnare Riempì le mani d’acqua e cominciò a scaraventarsela violentemente sul volto. Rimase, poi, almeno un minuto, con le mani appoggiate alla fontana, con gli occhi aperti, osservando le gocce caderle dal viso e schiantarsi nello scarico.
Si asciugò la faccia con la felpa e recuperò occhiali e sigaretta dal muretto. Quando indossò gli occhiali, ebbe l’impressione che non cambiasse nulla nella messa a fuoco delle cose intorno, il che era abbastanza strano, essendo davvero molto miope. Chissà, forse gli occhi riposati e l’aria del mattino le stavano giovando alla vista? Non ci pensò più di tanto e si avviò verso il bar. Il bisogno di caffè era più forte della curiosità.
In lontananza, però, un corteo funebre si affacciava dalla strada di casa e procedeva nella sua direzione. Meglio aspettare, per non rischiare di trovarcisi in mezzo, uscendo dal bar. In un paesino così piccolo non sarebbe stato difficile imbattersi in facce e giudizi conosciuti: «Che rottura di cazzo!»
Nell’attesa, come tutti i tabagisti, dopo pochi secondi, ricominciò a ravanare nelle tasche e nella borsa, nel tentativo di trovare quello stramaledettissimo accendino o magari un altro, perso o dimenticato in un’altra occasione.
Cercò ovunque, con perizia e rabbia, tanto che dovette imprecare a voce alta, perché una mano femminile apparve all’improvviso, con la fiamma pronta a farle accendere la sigaretta, già fiduciosamente tenuta tra le labbra.
Lei non guardò neanche chi fosse: accese, ringraziò con un cenno della mano e si rimise di nuovo a osservare il corteo, notando che, come previsto, conosceva la maggior parte dei presenti.
«Ma perché vanno così piano? Così ci metteranno un mese ad arrivare alla chiesa», commentò, istintivamente, ad alta voce. Pensava spesso ad alta voce.
I funerali non le erano mai andati a genio, non tanto per la tristezza fisiologica del momento, ma perché era convinta che la maggior parte dei partecipanti presenziasse per senso del dovere e lei odiava questo tipo di formalità. Senza contare, poi, che tutti quei bacetti erano davvero insopportabili.
«Non sono loro ad andare piano, sei tu che li percepisci così, perché sei accelerata», commentò la persona che le aveva prestato l’accendino poco prima.
Ci mancava solo la filosofa! Perché la gente non si fa mai i cazzi suoi? Basta farti accendere una sigaretta per sentirsi in diritto di poter attaccare bottone, ma stamattina cascavano male!
Doroty si girò verso la donna, pre-caricando un “vaffanculo” agonistico e pronta a scagliarglielo addosso con tutta la violenza verbale di cui era capace, specie appena sveglia, ma le si congelò il sangue nelle vene appena capì con chi stesse parlando.
Di fronte a lei c’era Barbara, sua cugina e grande amica, armata di quel sorriso strafottente che le era tipico, ma che non avrebbe dovuto o potuto trovarsi lì, per una singola e semplice ragione: era morta anni prima.
Almeno, avrebbe dovuto esserlo!
Un infarto? Una crisi respiratoria? Il panico? Come si reagisce in una situazione del genere? Doroty, come ognuno di noi, lo ignorava e come ognuno di noi reagì, nel modo più naturale e rapido possibile: cominciò a urlare!
Urlò più forte che le riusciva, sperando di attirare l’attenzione di qualcuno, fino a sentire il fiato spezzarsi, fino a rendersi conto che nessuno stava intervenendo.
Il corteo non avanzava, tanto da sembrare immobile, ma soprattutto indifferente alle grida. Come era possibile?
Insomma, come minimo avrebbero dovuto cercare di fermare una pazza che dava in escandescenza, a pochi metri da un funerale.
Questo non avvenne e le grida le andarono di traverso, mutando in un silenzio afono, quando tutto fu chiaro, nel momento in cui arrivò a riconoscere suo padre. L’uomo, composto e dignitoso, apriva il corteo, procedendo solitario, piangendo con eleganza e seguito a pochi metri, dal cugino Luigi, qualche parente più stretto e un paio di amici di famiglia.
Non ci fu bisogno di spiegazioni, capì subito chi stesse occupando quella bara e saltò direttamente alla domanda più ovvia, balbettando quelle poche parole che l’asma del panico le concedeva: «Come mi è successo?».
Barbara era divertita, in un modo che oscillava tra il rassicurante e la disperazione: «Non ricordo la mia, vuoi che ricordi la tua?»
Passiamo tutta la vita a illuderci che le illuminazioni arrivino in maniera solenne, immaginando eventi straordinari, ma la verità è molto più squallida: Doroty, in un solo istante, capì di essere morta, che esiste l’aldilà e che si perde la memoria del passaggio.
Si rese conto che non solo non ricordava cosa le fosse accaduto, ma neanche come fosse scomparsa la cugina, né tutte le altre persone che aveva perso.
Realizzò, in pochi attimi, che tutto era finito e che poteva accettare che ora il tempo fosse relativo, ma non di averne sprecato tantissimo, nella vita che le apparteneva fino a pochi istanti prima.
Quando la processione arrivò a distanza di sguardi, ebbe l’impressione d’incrociare quello del padre e si illuse: «Mi ha visto», sussurrò, un istante prima che lui tornasse a fissare l’asfalto, procedendo oltre.
Dopo di lui, in ordine sparso, le persone seguivano il passo lento del feretro, aumentando il brusio pian piano che aumentava la distanza.
«Con quella ci siamo sbronzate», Barbara riconobbe Anna, nel gruppo degli amici. Doroty fece cenno di sì, capendo che, per fortuna, aveva dimenticato solo la morte e non la vita.
Alcuni amici, i conoscenti e frequentazioni vivevano il corteo esternamente, senza prenderne parte attiva, ma facendo semplicemente numero. Qualcuno piangeva, qualcuno rideva, qualcuno era chiaramente lì per circostanza e non vedeva l’ora che finisse.
«Cominciano», Doroty intravide il primo dei suoi amanti. «Li vedi quelli? Me li sono scopati tutti e ne mancano ancora un bel po’!»
Barbara le diede della troia e nelle sue intenzioni era ancora un simpatico modo di approvare comportamenti libertini, ma Doroty aveva smesso da un bel po’ di ridere a quella battuta, anche tra amiche.
Da buone amiche, cominciarono la danza delle confidenze e dei pettegolezzi, additando platealmente le vittime inconsapevoli delle loro chiacchiere, tanto nessuno poteva vederle.
Doroty aveva preso la strada dei racconti, ma Barbara ormai si era distratta e le chiedeva informazioni su una figura in particolare, indicando un altro ragazzo, più lontano, che si teneva fuori dal resto della carovana.
Doroty sorrise: «Quello?», fece una breve pausa, «lui mi ha insegnato ad abbracciare.»
A Barbara, tuttavia, le questioni sentimentali interessavano poco e le chiese direttamente del sesso, restando molto delusa quando scoprì che era l’unico con il quale Doroty non si era sfilata le mutandine.
«Perché, non ti piaceva?»
«Anzi, ero pazza di lui, ma non lui di me… Poco male, una buona birra con lui è molto più appagante del sesso con molti altri». Silenzio, imbarazzo, poi scoppiò un una grassa, fragorosa e contagiosa risata, che ci mise poco a coinvolgere la cugina.
Risero tanto, scomposte e di gusto, come tante volte avevano fatto in vita, fino a quando Barbara non fece notare un piccolo particolare: il ragazzo stava sorridendo, anche se con dei tempi così impercettibili, che solo chi è al di fuori del tempo poteva percepire. Forse perfino lui non ne era consapevole.
Doroty si infastidì molto per quel sorriso, che per lei era una grande mancanza di rispetto, ma più perché lui le sarebbe mancato tantissimo e non riusciva a credere che non fosse reciproco.
La realtà, come le spiegò barbara, era ben diversa: il sentimento verso quel ragazzo aveva funzionato da ponte e gli aveva trasmesso parte delle risate di poco prima, che sulle sue labbra erano arrivate sotto forma di sorriso.
Doroty sospettò, quindi, che era accaduta la stessa cosa poco prima, col padre: mentre lo osservava, ancora ignara della sua nuova condizione, quasi si aspettava di essere ricambiata, provocando esattamente quella reazione, anche se solo per un istante.
Sì, non era stata solo un’impressione. Sì, il padre l’aveva guardata davvero.
Questa scoperta cambiò tutto e la riempì di una malinconica gioia, che si diffuse in tutto il suo spirito, esplodendo in un urlo liberatorio che funzionò da richiamo: in quell’istante preciso, il padre rialzò lo sguardo e lo puntò di nuovo verso di lei, stavolta mantenendolo per qualche istante in più e convincendola che, in qualche modo, anche lui fosse consapevole della sua presenza.
Barbara le raccontò che, quando si era trovata nella stessa situazione e Doroty era dall’altra parte della strada, anche i loro sguardi si erano incrociati per qualche istante.
«Non avevi detto che non si ricorda?»
«Per me quel ricordo viene dopo, nella “nuova vita”…»
“Nella nuova vita”, un’espressione che apriva scenari inaspettati. Guardandosi attorno, tutto le sembrava perfettamente normale. Se non fosse stato per il fatto che nessuno potesse vederla, tranne Barbara, avrebbe continuato a pensare di essere viva.
«Cosa succede adesso? Come funziona? Posso passare attraverso i muri e cose del genere?»
«Perché dovresti passare attraverso i muri se puoi andare in qualsiasi posto, solamente pensandoci?»
In effetti non avrebbe avuto senso, in più l’idea di poter vedere qualsiasi luogo in qualsiasi momento non le dispiaceva affatto: c’erano stati sempre pochi soldi e spesso neanche il tempo per viaggiare.
«Quindi posso andare ovunque, in qualsiasi parte del mondo?»
«In qualsiasi parte dell’universo! Dammi la mano…»
Doroty, emozionata, non ci pensò due volte e in un battito di ciglia si ritrovarono ad osservare la Terra, dalla superfice della Luna.
Era uno spettacolo da togliere il fiato, se solo ne avessero avuto ancora uno.
«Oh mio Dio… A proposito… Esiste? Come funziona la storia di Paradiso, Inferno e tutto il resto?»
«Sí, parleremo anche di quello, ma non ora. È più complicato di quello che pensi… Goditi il panorama, bello, vero? È il primo posto dove sono venuta dopo il passaggio, volevo vedere “The Dark Side”, ma niente di che… Quando lo vedi perde mistero e fascino!»
Da sole, al centro del loro personale universo, restarono per un po’ ad ammirarne l’immensità. Non avevano peso, nel senso che potevano decidere quanto averne, se fluttuare, correre o piroettare.
La Luna, per un fantasma, è il posto perfetto dove illudersi di avere ancora un corpo, dove la solitudine forzata dal deserto soverchia quella dell’inesistenza.
«Prova tu adesso… Dove vuoi andare?»
«Da mia madre!»
«Ci andremo presto, quando il suo tempo si allineerà al nostro…»
Doroty non chiese neanche cosa volesse dire, aveva tutta l’eternità per risolvere i grandi misteri dell’oltre-vita. Chiuse gli occhi e quando li riaprì erano di nuovo nella piazzetta del paese. Tra tanti posti a sua disposizione, aveva scelto proprio quello in cui aveva passato metà della sua vita.
Voleva vedere come sarebbe andata a finire, chi sarebbe rimasto dopo, chi avrebbe abbandonato il campo il più velocemente possibile e soprattutto voleva guardare ancora un po’ il padre, gli amici e quei volti che aveva amato.
Al termine della funzione, prese coraggio e iniziò a passeggiare tra i vivi, passandone in rassegna gli occhi, le smorfie, i silenzi. Faccia a faccia con il padre, mentre lui non sapeva di guardarla negli occhi, si lasciò scappare quelle scuse sforzate che credeva non avrebbe mai pronunciato. Di fronte a quel ragazzo che le aveva insegnato l’arte dell’abbraccio, gli promise che sarebbe successo ancora.
Quando il corteo si incamminò di nuovo, verso il cimitero, decise di non seguirlo: non voleva assistere ai saluti, perché ora lei sapeva che erano solo un “arrivederci”.
Barbara la attendeva a distanza, anche lei distratta dalla vista dei suoi genitori e del fratello.
«È ora di andare, hai mai visto una stella morire?»
C’erano tante cose che Doroty non aveva visto e che ora erano a sua disposizione, come quadri in mostra, ma c’era ancora qualcosa da sistemare, prima di quello che Barbara chiamava “l‘ultimo passo”.
Doroty non poteva attraversare, non ancora, perché era troppo pesante, portava con se una rara zavorra, qualcosa di prezioso anche per gli angeli: Doroty aveva due anime e prima del passaggio doveva restituirne una!
[Fine prima parte]
Un pensiero su “Il Corteo – pt1 di 2”