Il peso dell’aria (25/5/20)

Sono giorni pesanti, ma non li sento. Vivo leggermente e non li sento. Mi scosto leggermente, un po’ più in la, affinché l’onda mi sfiori soltanto, appena quel necessario per sentirla passare e poi riprendere il mio posto.

Mi scosto quel tanto che basta a percepirla, leggermente, sulla mia pelle.

Sono giorni pesanti, oppure sono io ad essere leggero? Ricordo quando i giorni erano leggeri, ma io ero pesante. Ricordo il peso che davo a questioni di poco conto.

Dove andiamo a mangiare la pizza? Questione insormontabile, che dava vita ad ore di discussioni, votazioni a scrutinio segreto, invocazioni di arbitrati celesti e sondaggi telematici chiarificatori, per poi dividersi in gruppi secessionisti, che con animo pesante gustavano la pizza ritenuta più leggera.

Ora? Quanto è pesante quella pizza senza la leggerezza di poter scegliere se restare soli? Ora preferiremmo ancora quella divisione o ci accontenteremmo dell’impasto più indigesto della città?

Eravamo pesanti, mentre proclamavamo la nostra leggerezza.

“Take it easy”, urlavamo dai nostri palinsesti sociali, mentre spendevamo metà del nostro tempo a mostrare che la vita ci scivolava, leggera, tra le dita, come sabbia di una clessidra rotta: oggi ci restano i cocci, pesantemente conficcati nei polpastrelli.

Abbiamo rinunciato, con leggerezza, al peso dei bagagli, cercando carichi sempre più agili e facili da trasportare, ma anche poco capienti. Abbiamo rinunciato perfino al peso “dell’Altro”, giudicandoci a vicenda “sostituibili”, concentrando tutta l’attenzione su noi stessi.

Poi, un giorno, silenzioso e leggero come un serpente, il conto delle nostre scelte si è materializzato al nostro tavolo e “l’Altro” ha cominciato ad avere un peso, stavolta nel ruolo di minaccia, di nemico.

Quello stesso nemico che avevamo inventato tante volte ora era lì, presente ed ingombrante, pesante come un macigno al collo, mentre sei in bilico sul baratro che tu stesso hai contribuito a scavare.

Abbiamo vissuto con la convinzione di abitare un solo piatto della bilancia, gettando ogni zavorra sull’altro.

Mentre lo facevamo, però, non ci accorgevamo che la nostra leggerezza ci portava sempre più in alto, fino ad una quota dalla quale, quando ne abbiamo avuto il bisogno, non eravamo più in grado di scendere.

A quel punto, le vertigini ci hanno dato nausea, facendoci rigurgitare tutta l’aria di cui eravamo pieni, ponendoci di fronte alla consapevolezza che non fosse poi così leggera.

Volevamo essere leggeri, per avere l’impressione di volare, fino a lasciarci tutto alle spalle, perfino la memoria dei nostri stessi errori. È stato così che abbiamo dimenticato Icaro e ci siamo fatti troppo leggeri: così come lui perse le ali, noi abbiamo perso il controllo.

Ci siamo schiantati contro il cielo, alla fine, capovolgendo i desideri ancestrali e vedendo nel pavimento la nuova meta dei nostri sogni: volevamo essere di nuovo pesanti, sentire ancora di avere un contatto, di essere concreti, esistenti e tangibili.

L’abuso di leggerezza ci ha condannato, come un piatto prelibato di cui abbiamo fatto indigestione e del quale, ad un certo punto, non riuscivamo neanche più a parlare.

Quindi io sono leggero, adesso, ma desidero ancora esserlo? Forse comincio davvero a sentire il bisogno di dar peso alle cose, di non scostarmi e lasciarmi travolgere da quell’onda che ho sempre evitato.

Forse percepirò un impatto più leggero, quando arriverà un nuovo tsunami, se imparerò ad affrontare il peso delle piccole e costanti mareggiate quotidiane.

Sono leggero, voglio ancora esserlo? Sei leggero, vuoi ancora esserlo?

Diamo peso… Adesso diamo peso… Finché possiamo, diamo peso!



Foto di Galvão Menacho da Pexels

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